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La lettera di Michele

“Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì”.

Mi ha colpito, fra tutte quelle che i giornali hanno riportato, nel circo mediatico che si è sviluppato attorno alla lettera di Michele, questa frase. Lucida, precisa, calcolata. È quello che dice lui: “Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine”. È la lucidità di chi si pone consapevolmente di fronte alla morte.

Sapete, ho cercato il testo della lettera, e uno dei primi risultati era il blog di Grillo. Lì la lettera è stata interamente pubblicata, determinate parti sono state messe in grassetto, ad esempio il Post Scriptum (“complimenti al ministro Poletti”) e c’erano i commenti dei tanti odiatori che gridavano vendetta contro i politici. Ho riflettuto se inserire questo passaggio, una voce mi diceva: “ti comporti al loro stesso modo”. Però c’è un limite a tutto, anche al politicamente corretto. Sono disgustato. E non mi importa che i genitori del trentenne abbiano deciso di pubblicare la lettera. Usarla come strumento di propaganda politica è un atto schifoso e inqualificabile, che non posso non denunciare.

È pur vero che molti dei problemi che ha dovuto affrontare Michele riguardano una generazione, certo che è così. Ed è altrettanto evidente che questa lettera è stata scritta con il preciso obiettivo di “imporre” una assenza, come dice Michele. A chi la impone? Ai familiari, agli amici, soprattutto alla donna mai nominata che adesso si sentirà ingiustamente divorare dai sensi di colpa. Anche a noi, ma in maniera totalmente diversa. Questa lettera si impone a noi in quanto tale, essendo chi l’ha scritta “assente”. Si impongono quelle parole, si impone quel dramma che automaticamente vogliamo sublimare a testimonianza generazionale. Era l’obiettivo, lucidissimo, di Michele. Non stiamo parlando di lui, e nemmeno della sua morte, anche perché della morte non c’è modo di parlare. 

Stiamo discutendo di quelle parole, che non hanno più un volto, ma sono già diventate un documento “letterario”, nel quale far identificare o meno altre persone. Talvolta, dicevo, persino in chiave di strumentalizzazione politica.

Lasciatemi ripetere quanto io trovi tutto questo inqualificabilmente squallido. È troppo comodo. Noi ne facciamo letteratura, ne discutiamo, ci mettiamo a giocare con i brandelli della carne di un uomo, facendo finta che se ne possa parlare con solita boria saccente, come con tutto, con quella finta commozione che non è altro che ipocrisia distaccata.

Il dramma di Michele non è il dramma di una generazione, è un dramma personale, personalissimo. Dovremmo rispettarlo in quanto tale. Quelle parole vogliono rivolgersi al mondo imponendo un’assenza, e i genitori di Michele, a torto o a ragione, hanno assecondato il volere del figlio facendole pubblicare. Ma se è necessario e inevitabile, a questo punto, che esse ci tocchino, non possiamo commettere l’errore che ha compiuto lo stesso Michele, lo stesso che lo ha portato alla morte. L’errore, voglio dirla così, del vittimismo. Michele ha assolutizzato il suo dolore, facendosi titano della lotta contro la vita. Contro una realtà che lo aveva imprigionato, insoddisfacente, piccola, limitata, contro la politica e i politici, contro lo stato generale delle cose, contro tutto. Ha fatto di sé un impersonale documento letterario, tramutando il suo dramma personale per sradicarlo dal piano del reale.

Ma noi non dobbiamo sbagliarci. Il dramma di Michele è il dramma di un essere umano. Una persona che non trovava stabilità lavorativa, arrabbiata e ferita per la fine della sua relazione sentimentale, con una storia – a noi sconosciuta – alle spalle, una persona che non voleva più lasciare che la vita lo interrogasse, che non ha avuto più la forza per tentare di lasciare il segno e plasmare un mondo diverso e migliore. Mi dispiace, Michele non è un martire, perché non ha dato la vita per testimoniare un valore più alto agli altri, per amore. Si è tolto la vita perché non riusciva più donarla agli altri. Non è un giudizio, è una realtà che ha descritto lui stesso con le sue parole. E mi dispiace ancora, ma Michele non è morto semplicemente perché non aveva il posto fisso.

Purtroppo la vita continua e continuerà a porre domande personali a ciascuno di noi. Purtroppo il mondo nel quale viviamo continuerà ad essere imperfetto e ci sarà bisogno dell’impegno di chi si troverà a farne parte. E l’unico modo per realizzarsi nella vita continuerà ad essere quello di donare quel poco che si è.

I passi che deve fare la politica per ridurre la disoccupazione giovanile e per dare ossigeno a una generazione precaria sono gli stessi di ieri e dell’altro ieri, e il dramma personale di Michele, che non è un documento letterario su cui fare inutili elucubrazioni, che non è la testimonianza di un martirio, non cambia lo stato delle cose. Semmai ci impone di darci da fare affinché domani non ci siano più esclusi, perché tutti si sentano parte di una comunità dove lo sforzo creativo della vita è ugualmente richiesto a ciascuno, dove nessuno rimane indietro. Semmai ci impone di ricominciare a chiedere alla persona umana di ritornare a se stessa, al suo essere in relazione, di togliere di mezzo l’Io e il Voi per mettere al centro il Tu e il Noi. Questo sì, dobbiamo contribuire a farlo. 

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