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A che serve il “mea culpa” di Calenda?

Carlo Calenda ha dichiarato, durante la presentazione di un libro: “io per trent’anni ho ripetuto le banalità del liberismo, ora ho capito che erano solo cazzate”.
Un risveglio interessante, che assume quasi i caratteri del pentimento.

Non mi interessa capire se dietro a questa “conversione” ci sia un percorso intellettuale o una virata in funzione del mero consenso. Ovvero, non mi interessa sapere se Calenda alla fine si sia davvero convinto che quando Alesina e Giavazzi dicevano che bisogna “salvaguardare il lavoro e non i posti di lavoro” dicevano delle idiozie, o se gli convenga dirlo per tentare di recuperare qualche voto. Può darsi che le due cose siano connesse, e non ci vedo nulla di male.

Anzi, è senz’altro apprezzabile questa autocritica che non sentiremo mai pronunciare dal 90% dei politici italiani. Come abbiamo già detto qualche giorno fa, alle cazzate del liberismo ci hanno creduto tutti, non solo Calenda.

La vera domanda è – posto che tutti siamo felici della folgorazione sulla via di Damasco – che cosa ci si mette al posto del liberismo? Che tipo di politiche economiche vogliamo portare avanti? E poi, in quale disegno politico si progetta questa alternativa?

Siamo sicuri che la soluzione sia la frammentazione? Che un Partitino dell’1% dalla collocazione non chiara valga la perdita del contributo intellettuale che persone come Calenda possono dare al PD?

Io credo di no, soprattutto perché nel PD – anche se Marattin se n’è uscito – ci sono ancora tanti che alle cazzate del liberismo aderiscono come ad un Vangelo.

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